Edda Orlandi Università degli Studi di Milano
Del mio primo giorno di università mi rimane solo questa impressione: trovai bellissimo il fatto che le porte fossero sempre tutte aperte, e quindi che chiunque, anche senza essere iscritto, potesse entrare in università e ascoltare una lezione, qualunque lezione volesse.
Alla terza lezione del corso di economia politica, e alla quarta di diritto pubblico, in effetti, il mio entusiasmo per tutta questa accessibilità del Sapere si era già in gran parte esaurito, e iniziavo a meditare di sfruttare questa liberalità delle aule universitarie statali per fare un giro esplorativo in altre facoltà, prive di numeri, formule e commi, e valutare se cambiare corso di laurea fin che ero ancora in tempo. Di lì a poco avrei indirizzato il mio interesse per il libero accesso alle aule universitarie nella direzione opposta: alla libertà di uscirne, o, se per questo, di non entrarvi neppure, come studente non frequentante. E, in fondo, l’essermi laureata in Scienze Politiche e non aver deciso di cambiare facoltà lo devo un po’ anche a questo.
Non che, ovviamente, in quelle prime settimane da matricola iper-diligente osassi davvero saltare le lezioni – tanto ero sicura che all’esame sarei stata altrimenti bocciata per essermi persa proprio quella spiegazione assente sul manuale. Per essere più precisi, non avrei potuto saltarle anche volendo: il mio zelo verso l’apprendimento universitario, insieme alla mia calligrafia ordinata, avevano reso i miei appunti talmente richiesti dai compagni di corso più smaliziati in tema di frequenza alle lezioni che dovevo continuamente stazionare in facoltà in attesa di recuperare i miei fogli di quaderno, prestati per essere fotocopiati, rendendo impraticabile il mio proposito di andare a verificare se le lezioni di Lettere e Filosofia fossero effettivamente più interessanti di quelle di Scienze Politiche.
Così sono rimasta lì e, con il tempo, ho finito per diventare anch’io, per alcuni corsi, una Studente Non Frequentante.
Additato come uno dei peggiori mali dell’università italiana, inevitabilmente destinato a trasformarsi nell’ancora meno raccomandabile Studente Fuoricorso, lo Studente Non Frequentante è stato oggetto di tentativi di estirpazione solo parzialmente incisivi nella maggior parte dei corsi di laurea (in cui la frequenza è “fortemente consigliata”) e riesce talvolta misteriosamente a persistere persino nei corsi di laurea a frequenza obbligatoria.
Questa sofferta tolleranza verso lo studente non frequentante sembra fondarsi, oltre che sulla sua convenienza (nulla chiede e nulla pretende, fuorché passare gli esami) sul mito che lo vede sempre studente lavoratore, cui sarebbe evidentemente inopportuno negare una laurea per il fatto che si deve mantenere lavorando. In realtà i motivi della non frequenza sono i più diversi e hanno solo parzialmente a che fare con il lavoro (i dati AlmaLaurea 2011 indicano che tra i laureati che non hanno svolto alcuna attività lavorativa durante l’università solo l’81% ha dichiarato di aver frequentato più del 75% degli insegnamenti previsti).
La non frequenza alle lezioni, vorrei suggerire, trova un solido fondamento nell’idea, inculcata negli studenti almeno a partire dall’inizio della scuola media, che il processo di apprendimento (se non altro per le materie non “scientifiche” o tecniche) sia qualcosa che non avviene in classe, durante la lezione, nel confronto con gli insegnanti e i compagni, ma in un altrove – la propria stanza, la biblioteca, il treno – in cui lo studente è solo con un testo scritto da leggere, imparare, ragionare.
Dal che credo discenda anche l’inesorabile mutismo che spesso affligge gli studenti italiani in classe, i quali si lasciano convincere a rispondere a domande che non siano poste durante un’interrogazione solo dopo molte lusinghe e minacce (“Guardate che se qualcuno non risponde chiamo un nome a caso dall’elenco…”) e ancor più difficilmente a porne loro stessi. Qualunque dialogo in classe, in questa prospettiva, finisce infatti per costituire un fastidioso contrattempo rispetto al regolare svolgimento delle lezioni, la cui utilità risiederebbe esclusivamente nell’annotazione degli importantissimi appunti, che del resto è stata loro indicata per anni come la principale capacità da acquisire per potersi laureare (“Dovete imparare a prendere appunti, se no poi all’università come fate?!”) – capacità che però, come si è visto, può essere facilmente sostituita dalla perizia nell’uso della fotocopiatrice e nell’interpretazione delle altrui calligrafie.
Date queste premesse, la presenza degli studenti a lezione rimane una circostanza che non smette di commuovermi, un atto di generosità gratuita meritorio di un impegno nel preparare le lezioni che altrimenti non avrebbe nessun reale incentivo – se non, al limite, il rischio di ritrovarsi un giorno in un’aula deserta. Ho almeno due motivi, dunque, per ringraziare gli studenti non frequentanti: la mia laurea, grazie alle loro richieste di appunti in prestito, e l’avermi reso un’insegnante migliore, grazie al timore del veder altrimenti crescere, lezione dopo lezione, il numero delle sedie lasciate da loro vuote.
[Questo post si inserisce in una esplorazione del mondo dell’Università in Italia che ha già visto un contributo in questo blog, e sarà prossimamente oggetto di una serie di interventi che presenteranno vari aspetti di questa realtà dai diversi punti di vista degli attori che ne fanno parte.]