La questione del confine orientale italiano pare ai più una disputa ormai conclusa e lontana nel tempo. In realtà la situazione di questi territori e delle genti istro-dalmate qui risiedenti rimase in sospeso fino al 1975, anno in cui vennero ratificati i confini tra l’Italia e la Iugoslavia con il Trattato di Osimo. Le discussioni sul confine tra le due nazioni si erano aperte alla conferenza di pace di Parigi del 1946. Al fine di risolvere le discrepanze tra la proposta americana e quella sovietica si optò per un compromesso territoriale. Rimaneva all’Italia la parte più occidentale della Venezia Giulia con le cittadine di Gorizia e Monfalcone, mentre per Trieste, città “perla” della regione, si propose la creazione del Territorio Libero di Trieste
(TLT) sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite.
Oltre alla maggior parte della penisola istriana, incluse le cittadine di Pola (Pula) e Rovigno (Rovinj), passavano alla Jugoslavia anche le città dalmate di Fiume (Rijeka) e Zara (Zadar). In realtà il TLT non venne mai costituito e l’area in questione rimase divisa in due zone: la zona A — comprendente la città di Trieste, la cittadina costiera di Muggia e uno stretto corridoio che univa i due centri all’Italia — continuò ad essere amministrata da un governo militare alleato, mentre la zona B rimase in mano all’amministrazione militare iugoslava. Nell’autunno del 1954, Italia e Iugoslavia firmarono il Memorandum di Londra che prevedeva il passaggio dell’amministrazione della zona A dall’AMG (Allied Military Government) all’Italia e della zona B dalla VUJA (Vojna Uprava Jugoslavenske Armije) alla Iugoslavia. Questa situazione si protrasse fino al 1975, anno in cui si firmò il Trattato di Osimo.
Fino agli anni ’90 scarso è stato l’interesse per i travagliati cambiamenti sul confine orientale italiano. Nell’introduzione al suo volume Profughi (2005), Gianni Oliva pone espliciti interrogativi in merito al silenzio calato su questi eventi:
Perché nel nostro paese, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, non si è quasi mai scritto né parlato di questa vicenda? Perché il dramma di centinaia di migliaia di persone è diventato una memoria negata, esclusa dalla consapevolezza storica nazionale e confinata nella sola coscienza locale giuliana o in quella privata dei profughi? (p. 4)
Eppure a seguito del trattato di pace di Parigi (1947) in prima istanza, e del Memorandum di Londra a seguire, molte furono le partenze da questi territori. Partivano prevalentemente gli italiani. Quantificare questo fenomeno migratorio che iniziò sul finire della seconda guerra mondiale e proseguì fino agli anni ’50 non è compito facile. La maggioranza degli studi sull’argomento citano cifre che vanno dai 250 mila (Raoul Pupo, Il lungo esodo , 2005) ai 350 mila individui (Enrico Miletto, Con il mare negli occhi , 2005). I diritti di opzione che inizialmente dovevano chiudersi nel 1948 furono infatti più volte prolungati fino alla definitiva chiusura nel gennaio del ’56. La maggioranza di coloro che lasciarono l’Istria e la Dalmazia si stabilirono all’interno dei nuovi confini italiani. Sparsi lungo la penisola italiana si contavano 109 campi profughi che accolsero le genti istro-dalmate. Altri esuli presero invece la strada dell’espatrio oltreoceano in direzione delle Americhe, dell’Australia e della Nuova Zelanda.
Si è spesso utilizzato il termine “esodo” per indicare queste partenze di massa. Più consono appare il lemma “esilio” poiché capace di designare sia lo stato di coloro che partirono (gli “andati”), sia l’esilio interno degli italiani che decisero di rimanere nei territori ceduti (i “rimasti”). Con il suo celebrato libro Esilio (1996), lo scrittore e giornalista Enzo Bettiza aprì una prima porta sulla storia di queste terre di frontiera che rimase ufficialmente archiviata fino al 2004, anno dell’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio) con cui si commemora l’esodo giuliano-dalmata e le vittime delle foibe. Così rammentava la sua condizione di esule lo scrittore spalatino:
Mi accorsi di aver tentato di estirpare a poco a poco dalla memoria il variegato microcosmo di frontiera in cui ero nato e da cui, esule senza fissa destinazione, ero partito alla cieca per il mondo (p. 9).
In Torn Identities (Troubador, 2013) esploro il “microcosmo di frontiera” di cui racconta Bettiza e in particolare la condizione di chi proviene da un luogo scomparso dalle attuali cartine geografiche. In questo caso si tratta dell’Istria e della Dalmazia italiane e della stessa Iugoslavia, ma la geopolitica dell’età contemporanea ci ha offerto numerosi esempi di situazioni di questo tipo. In questo saggio mi sono concentrata sulla scrittura delle donne analizzando una selezione di scritti di genere vario, che vanno dall’autobiografia all’autofinzione, passando attraverso il memoir e lo scambio epistolare. I testi analizzati, tutti scritti in italiano, sono frutto della mano di cinque autrici accomunate dal fatto di essere nate in Istria o Dalmazia: Kenka Lekovich, Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani e Giuliana Zelco. Due le generazioni in questione: Kenka Lekovich nacque a Fiume-Rijeka quando la città era già sotto l’amministrazione iugoslava, le altre quattro scrittrici erano bambine all’epoca della seconda guerra mondiale. Tra queste ultime, Zelco, Mori e Madieri, lasciato il loro paese d’origine per ristabilirsi all’interno dei nuovi confini italiani, sono esponenti degli “andati”. Milani, la cui famiglia decise di rimanere a Pola-Pula, diventò parte della comunità dei “rimasti”.
Ispirata dalla “filosofia della narrazione” di Adriana Cavarero, ho seguito il percorso tracciato da queste vite narrate. Il saggio non indaga la disputa geopolitica tra Italia e Iugoslavia. Ne esplora invece le conseguenze sul piano identitario. Il libro è suddiviso in tre parti tematiche. La prima parte si concentra sull’analisi dei luoghi: dagli spazi esterni dei paesaggi rurali ed urbani a quelli interni, ovvero gli spazi domestici, senza tralasciare lo spazio di transizione del confine. I luoghi formano una griglia spaziale su cui si snoda il percorso della memoria. La seconda parte, la memoria dei luoghi, si focalizza sulla ricostruzione dell’asse temporale passato-presente interrotto bruscamente e drammaticamente dall’esperienza dell’esilio. Nella terza parte ho voluto infine includere le interviste con le scrittrici.