Barbara Pezzotti New Zealand
Recentemente è uscito un interessante pezzo su “The Guardian” dedicato alla crime fiction europea. L’autore Mark Lawson fa una panoramica di alcuni autori di gialli del Vecchio Continente (per l’Italia cita Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri). Tra le altre cose, Lawson mette in evidenza che la narrativa può servire come una sorta di turismo da poltrona e che “[c]rime stories […] are a perfect illustration” di questa funzione. Secondo Lawson, sin da “The Murders in the Rue Morgue” di Edgar Allan Poe, come noto ambientato a Parigi, il genere è stato “regularly a ticket for a Grand Tour”. In effetti, il clamoroso successo di Stieg Larsson ha portato, per esempio, a un incremento dei viaggi turistici verso la Svezia, mentre numerosi fan di Donna Leon visitano Venezia con i suoi libri in valigia.
Come ha osservato Eva Erdmann, “given the natural desire for the acquisitions of general knowledge on the part of the reader, it is logical that a genre dedicating itself increasingly to the fictional description of local cultural knowledge should prove exciting to a wide readership” (“Nationality International: Detective Fiction in the Late Twentieth Century”, in Marieke Krajenbrink and Kate Quinn (eds) I nvestigating Identities. Questions of Identity in International Crime Fiction, 2009). Da parte loro Ellen Carter e Deborah Walker-Morrison, nel loro contributo al recentissimo The Foreign in International Crime Fiction: Transcultural Representations (2012), mettono in guardia dalla problematica credibilità di storie “ill-informed” ambientate in terre esotiche o esoticizzate.
Cosa rappresenta quindi la narrativa d’indagine? È un surrogato di una guida turistica? È portatore (in)sano di pregiudizi e stereotipi? Può invece essere veicolo di approfondimento e di acculturamento? Che ruolo giocano in questo contesto l’autore outsider e quello insider? Quali spazi e luoghi, insomma, disegna il giallo nella accezione più ampia di questo termine?