Laura Lori University of South Australia
Siamo in un momento storico in cui è necessario demistificare l’abusato ed anacronistico mito degli “Italiani brava gente”: molti, fra intellettuali, artisti ed accademici si stanno attivamente dedicando a farlo e all’interno degli studi di italianistica sta prendendo forma un rilevante filone di critica postcoloniale.
A livello personale, all’interno del panorama della letteratura postcoloniale in italiano ho scelto dedicare particolare attenzione al caso degli autori provenienti dalla Somalia, perché questa è l’unica ex-colonia in cui l’Italia sia tornata dopo la fine della seconda guerra mondiale con un ruolo di comando. Il 21 novembre 1949, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che ha affidato all’Italia il mandato fiduciario sulla Somalia per 10 anni, la cosiddetta Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS) – e questo periodo di dissimulata dominazione ha creato un unicum culturale.
Tristemente, uno dei prodotti di questo anomalo rapporto fra dominati e dominati è quella che io definisco la stolen generation somala. In somalo esiste un’espressione che identifica questi figli rubati ed è ciyaal missioni . Essa unisce la parola somala per bambini, ciyaal appunto, e quella italiana di missioni: con essa venivano indicati i bambini figli di un italiano e di una somala, che non erano stati riconosciuti dai padri e venivano cresciuti come orfani nelle missioni italiane. Sia durante il periodo coloniale che durante l’Afis, e anche dopo, durante la Repubblica somala e la dittatura, infatti, la scuola italiana, gli asili, gli orfanotrofi, i brefotrofi e gli altri importanti luoghi di incontro con i giovani somali sono stati affidati a figure religiose, come suore e frati, inviati là dall’Italia, in base a quel principio secondo cui la Santa Sede tendeva a mandare nei Paesi colonizzati o da colonizzare missionari della stessa nazionalità della potenza imperialista. La convivenza fra gli italiani e le donne somale, una situazione abbastanza diffusa ai tempi del colonialismo, divenne quasi la norma durante il mandato fiduciario italiano, tanto da preoccupare persino le autorità cattoliche e il destino dei bambini nati da queste unioni, circa seicento secondo i documenti dell’epoca, è stato appunto orribilmente simile a quello della stolen generation degli aborigeni australiani. Funzionari italiani si recavano dalle madri quando i bimbi avevano pochi anni e le convincevano che i loro figli avrebbero avuto un futuro migliore con gli italiani. Promettevano loro che avrebbero ricevuto un’istruzione prima ed un lavoro poi, ma soprattutto che non avrebbero mai sofferto la fame, rischio che, erano sicuri, avrebbero corso restando con loro, donne giovani e sole perché allontanate dalla comunità in seguito alla relazione con gli italiani. Molte delle ragazze accettavano e così i loro bambini si trovavano a crescere in istituti cattolici italiani, dove erano costretti a dimenticare la lingua e la cultura delle loro madri. Alla fine del mandato dell’Afis e durante gli anni successivi, questi bambini sono stati gradualmente portati in Italia, perché ormai cresciuti senza alcun legame con la Somalia, dove, inoltre, erano oggetto di razzismo perché figli di italiani. L’impegno dei religiosi anche in questo frangente supplisce in parte alla latitanza dello stato (cito da un articolo apparso su La Repubblica nel 2008 a cura di Francesca Caferri): “Don Antonio Allais, sacerdote torinese […] negli ’70 assunse la patria potestà di decine di piccoli apolidi di origini somale e imbastì cause su cause perché fosse riconosciuta loro la cittadinanza italiana. Le vinse, regalando ai suoi protetti un’ identità su cui cominciare a costruirsi una vita” anche se lui stesso ha sostenuto che un passaporto non sana le ferite.
L’espressione cyaal missioni , o più semplicemente missioni, compare pressoché in tutti i romanzi somali, ma spesso senza che ne sia chiaramente spiegata l’origine: si tende ad usarla semplicemente nell’accezione di figli di italiani. S’intuisce che la parola missioni sia divenuta quasi sinonimo, nella mentalità comune somala, di italosomalo. Il significato spregiativo assunto dal termine non è causato dall’origine italiana, ma dal concetto della paternità sconosciuta e negata: nella cultura somala è questo che lo rende un’offesa. Infatti, anche nel caso di scomparsa del padre, la sua famiglia reclama in qualche modo gli eventuali figli, che, dunque, pur essendo rimasti orfani, non restano mai del tutto soli né sono cresciuti da estranei. Sembra che la morale cattolica e la cultura somala convergano su quest’argomento, anche se, in realtà, nella mentalità somala la mancanza di appartenenza per via paterna significava mancanza di un’identità e di conseguenza anche di nazionalità, mentre dal punto di vista religioso la negatività del non essere stati riconosciuti dal proprio padre è legata all’idea di peccato.
Ritengo che sarebbe ora di approfondire anche questo aspetto della nostra storia, non solo per puro interesse accademico, ma anche per sanare antiche ferite e costruire una società più equa in relazione a temi quali identità e cittadinanza e in tal senso uno studio attento e approfondito dei testi della letteratura somala in italiano può senza dubbio rivelarsi uno strumento efficace.
Se in passato lo Stato ha lasciato che fossero i rappresentanti della chiesa e non i propri funzionari a gestire il problema dei figli degli italiani, sia in Somalia che al loro arrivo in Italia, adesso sarebbe ora di fare un passo avanti e finalmente allinearsi ad altri Stati, come l’Australia ad esempio, nel porgere le proprie scuse alla stolen generation di casa nostra.