Rita Levi Montalcini, c. 1975.
Image courtesy of the Bernard Becker Medical Library, Washington University School of Medicine. Wikimedia commons
Luciana d'Arcangeli writes ...
Sulla scia del Nobel andai a sentir parlare Rita Levi Montalcini, a Roma, tanti anni fa. Ero giovane e quando la vidi mi chiesi cosa ero andata a fare lì io che non avevo accettato la borsa di studio per studiare biologia marina a Sarasota nel lontano ’83 e che avevo rinunciato al sogno di studiarla a Parigi proprio nell’86, scorata dalla proposta di legge Devaquet. Quando la vidi, già fragile, in compagnia della sorella Paola, con quella sua pettinatura così “secolo scorso” cercai la porta – troppo lontana – e mi preparai ad annoiarmi.
Non disse una sola frase sulla fisiologia, sulla medicina, sulla ricerca, credo, ricordo che parlò dei giorni, settimane, mesi passati chiusi in casa a “giocare” con le uova perché sperimentare era quello che voleva fare, anche se non le era permesso dalle leggi razziali dell’epoca. Il contenuto sarebbe già bastato ma la soddisfazione che leggevi negli occhi e traspariva sul volto felice era un messaggio che non si poteva ignorare allora come ora.
Ho sempre invidiato chi, già da piccolo, sapeva cosa fare da grande o chi, come Rita Levi Montalcini, fosse stato folgorato da una passione sulla via di Damasco, o instradato da un grande maestro. Lei fu testimone di una malattia e capì di voler studiare medicina ed una volta arrivata agli studi trovò un grande maestro: Giuseppe Levi. Non credo sia un caso che siano stati insigniti del Nobel tre suoi studenti: Luria, Dulbecco e Levi-Montalcini – o che sua figlia diventasse poi la scrittrice Natalia Ginzburg. Durante il suo discorso Levi Montalcini lo ringraziò, convinta, nonostante lui fosse scomparso da più di venti anni. Commovente, anche se mi chiesi con un pizzico di irritazione su quale albero crescessero questi maestri…
Non ci fu tempo per annoiarsi: parlò di Mussolini, della ricca America che l’aveva benvenuta, del suo rientro in Italia, del diventare vecchi lasciando spazio ai giovani ma, soprattutto, parlò dell’essere donna in un mondo di uomini, del suo desiderio di vedere le donne riconosciute per i loro meriti e la loro intelligenza, di vedere più donne nei laboratori, a capo dei laboratori, al governo. Sgomitai tra la folla per poterle stringere la mano, nella ridicola speranza che il contatto fisico mi miracolasse. Ridicolo? Si, ma la mano dolce e sicura, asciutta e generosa fu anch’essa una lezione.
Anni dopo mi capitò di lavorare come traduttrice per la sua Fondazione EBRI – European Brain Research Institute – e dai documenti traspariva un’etica che riconoscevo come profondamente sua. La sua frase “il corpo faccia quel che vuole, io sono la mente” l’ha vissuta fino all’ultimo. Anzi, il suo “corpo” l’ha figurativamente “donato” alla ricerca quando per il suo centenario si è messa al centro dell’attenzione per ottenere l’8 per mille degli italiani a favore della sua fondazione. Se le ragazze di oggi cercano un esempio femminile da seguire non credo debbano guardare oltre.
Grazie, Rita, da parte di tutte.